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      Una sfumatura d'amarezza accennavasi a volte nelle parole più semplici, nei sorrisi che si evitavano, negli sguardi che si cercavano sospettosi.
      Una sera che Bice s'era ritirata prima del solito, e Roberto era rimasto nel salotto insieme alla contessa, per farle compagnia, il silenzio piombò all'improvviso, quasi minaccioso. Anna stava a capo chino, dinanzi al fuoco che spegnevasi, presa da un brivido, tratto tratto, e il lume posato sul caminetto le accendeva dei riflessi dorati alla radice dei capelli, sulla nuca che sembrava accendersi anch'essa di fiamme vaghe. Come Roberto si chinò a prender le molle, essa trasalì vivamente, e si alzò di scatto per augurargli la buona notte, accusando un po' di stanchezza. Il marchese l'accompagnò sino all'uscio, in preda anche lui a un vago turbamento. In quella apparve Bice, come un fantasma, vestita del suo accappatoio bianco.
      Madre e figlia si guardarono, e la prima rimase senza parola, quasi senza fiato. Roberto, il meno imbarazzato di tutti e tre, chiese:
      - Che hai, Bice?
      - Nulla... Non potevo dormire... Che ora è?
      - Non è tardi. Tua madre stava per ritirarsi... dice di sentirsi stanca...
      - Ah, - rispose Bice. - Ah... - E non disse altro.
      Anna, ancora tremante, balbettò con un triste sorriso:
      - Sì... sono stanca.. Alla mia età... figliuoli miei!...
      - Ah, - ripeté Bice.
      Allora la madre, facendosi pallida come una morta, come soffocata da un'angoscia ineffabile, aggiunse con quello stesso sorriso doloroso:
      - Non mi credete?... Non mi credi, Bice?


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Tutte le novelle
di Giovanni Verga
pagine 993

   





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