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      L'uomo virtuoso sente l'ingiustizia, di cui è la vittima; sente la debolezza propria contro il numero che l'opprime. Quindi il virtuoso, il forte Bruto, inzuppato della idea della virtù di Platone, dopo averla esattamente seguita nelle azioni, ritrovandosi il cuore oppresso da affanni, proruppe chiamandola un sogno; non già pentendosi di averla seguita, non già negando l'esistenza di lei, ma unicamente confessando la chimera di chi s'immaginò, che la tranquilla serenità d'un'anima virtuosa, che la beatitudine di occupare sè medesima della coscienza propria potessero preservare la mente, e il cuore dai dolori, dalle amarezze e da quel cumulo di mali, che l'avversa fortuna precipita indistintamente sugli uomini. La giustizia perciò del grand'Essere ha riservato a sè medesima la distribuzione del premio alla virtù, che non può essere bastantemente ricompensata nè dal sentimento proprio, nè dalla mercede degli uomini.
     
     
      §. V.
      La maggior parte de' dolori morali nasce da un nostro errore.
     
      Quantunque però io creda che la virtù stessa non basti a rendere perfettamente felice l'uomo in terra, dico che l'uomo virtuoso a circostanze eguali sarà più felice dell'uomo malvagio. Dico di più che se l'uomo potesse avere i sentimenti sempre subordinati alla ragione, sarebbe certamente meno soggetto ai dolori morali di quello ch'egli è. Ogni dolor morale è semplice timore. Questo dolore è una mera aspettazione d'un d'un dolore contingibile. Quando siam tormentati da un dolor morale, altro male non soffriamo in quel momento fuorchè il timore di soffrirne; questo timore spesse volte è chimerico, e sempre ha un grado di probabilità contro la sua ventura realizzazione; può dunque colla ragione o togliersi, o almeno scemarsi, o almeno, vistane l'inutilità di soffrirlo, procurarsene la distrazione.


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Discorsi sull'indole del piacere e del dolore; sulla felicità; e sulla economia politica
di Pietro Verri
Editore Marelli Milano
1781 pagine 308

   





Bruto Platone Essere