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      In uno Stato poi dove un'oncia d'argento puro abbia sempre il medesimo valore che un'altr'oncia d'argento puro qualunque sia l'impronto, e la denominazione dei pezzi che la compongono, e qualunque sia il volume di essi cagionato dalla vile materia a cui sta frammischiata; dove lo stesso possa dirsi e nell'argento, e nell'oro, e nel rame monetati; dove la proporzione fra un metallo e l'altro sia la medesima dei prezzi comuni de' metalli; dove indirettamente in somma il legislatore siasi limitato a dichiarare il prezzo pubblico de' metalli non mai direttamente a regolarli, in quella nazione dico, non uscirà mai un'oncia d'oro, o d'argento se non per rientrarvi un valore eguale o in merce universale, o in particolare; e potrà entrarvi anche valor maggiore trasmettendo agli esteri quella moneta ch'essi han voluto arbitrariamente valutare più del giusto, e ritraendone altre monete, che gli esteri arbitrariamente pure abbiano valutato meno del giusto; essendo che non è più fattibile che il legislatore fissi a suo arbitrio il prezzo della merce universale di quel che sia il prezzo di qualunque altra merce particolare, dipendendo, come si è di già veduto, questa quantità dal numero de' compratori paragonato a quello de' venditori. Dovunque gli editti di monete diventino una mera dichiarazione del prezzo comune de' metalli, ivi non sarà possibile che siavi disordine di monete, nè che il Commercio della moneta sia mai di danno. Conviene però ricordarsi della definizione data al prezzo comune.


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Discorsi sull'indole del piacere e del dolore; sulla felicità; e sulla economia politica
di Pietro Verri
Editore Marelli Milano
1781 pagine 308

   





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