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      Secondariamente, se i dottori considerassero la tortura come un mezzo per avere la verità, prescriverebbero di attenervisi e considerare per certo quello che un tormentato dice fra i tormenti. La pratica però ordina che ciò non sia attendibile, se l'uomo qualche tempo dopo e in luogo lontano da ogni apparecchio di tortura non ratifica l'accusa fatta a se medesimo, acciocché non rimanga sospetto che la violenza dello spasimo abbia indotto il torturato ad accusarsi indebitamente. Dunque la pratica stessa criminale non risguarda lo strazio della tortura come un mezzo per avere la verità. Questa pratica si è veduta eseguita anche sugli infelicissimi Piazza e Mora, ed è poi una contraddizione veramente barbara quella di rinnovare la tortura all'uomo che revochi l'accusa fattasi nei tormenti. Alcuni dottori trovano giusta una tale alternativa indefinitivamente, per quante volte il torturato disdice l'accusa datasi; cosicchè o deve alla fine morire di spasimo ripetuto, ovvero perseverare anche fuori del tormento ad accusare se stesso. Altri dottori limitano questa alternativa a tre torture, come il Claro. Se dunque la stessa pratica criminale insegna di non credere a quanto un torturato dice in propria accusa fra i tormenti della tortura, ma esige che l'accusa la ratifichi con tranquillità e libero dallo spasimo, forza è concludere ad evidenza, che la stessa pratica criminale non considera la tortura come un mezzo da conoscere la verità.
     
     
      XI. Se la tortura sia un mezzo lecito per iscoprire la verità


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Osservazioni sulla tortura
di Pietro Verri
1804 pagine 93

   





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