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      Questo primo germe di discordia non si estinse mai più, sebbene per intervalli venisse sopito. Tutta la storia seguente ne farà testimonio. L'arcivescovo era alla testa del partito de' nobili, come quasi sempre lo furono gli altri suoi successori. La cosa è assai naturale, perché i cardinali erano scelti fra le più nobili famiglie, e l'arcivescovo era trascelto dal loro numero. La plebe era trattata con molta durezza dai nobili. La nazione aveva già preso un'educazione militare, e questa ha per solo rapporto fra un uomo e l'altro il comando e l'obbedienza. Un resto ancora rimaneva di servitù longobarda, per cui un nobile era proprietario di molti uomini. I costumi erano ancora agresti, e spiravano il secolo di ferro. La plebe, che aveva col suo sangue contribuito anch'essa a difendere la patria, non poteva soffrire di vedersi così non curata e depressa cessato che fu il pericolo. La plebe di Roma abbandonò la patria e si ricoverò sul monte Sacro. Convien confessare che quella di Milano trovò uno espediente migliore; poiché invece ella scacciò dalla città l'arcivescovo e tutti i nobili: e ciò avvenne l'anno 1042. Per più di due anni continui si mantennero i plebei ben muniti e difesi in Milano; tentando incessantemente i nobili, o per assedio o per sorpresa, di rientrarvi; e sempre rispinti colla loro peggio. Vi volle un giusto timore che il re Enrico approfittasse di questa discordia, per riunire almeno in apparenza gli animi e calmare i partiti. L'arcivescovo Ariberto, nel 1045, finì la sua gloriosa carriera.


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Storia di Milano
di Pietro Verri
pagine 1182

   





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