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      Questo nuovo colpo ammorzò per alcuni altri mesi il furor di partito.
      Ogni altro fuori che Ildebrando, si sarebbe stancato per tante difficultà, ma la fermezza e l'ostinazione erano la base dei suo carattere. Già da più di dieci anni la guerra civile era accesa. Un partito si era creato; si era rianimato con più mezzi; s'erano riparati i colpi che pareva lo dovessero distruggere per sempre: ma non per questo si era sottomessa la chiesa milanese se non per un momento. I preti ammogliati continuavano a esercitare il loro ufficio. L'arcivescovo Guidone nessun caso faceva delle bolle della scomunica, né il popolo lo guardava come legittimamente scomunicato. I nobili stavansene fuori d'una città abbandonata al furore de' partiti; potevano rientrare questi conducendo armati. Il re Enrico s'andava accostando all'età di regnare; poteva quel principe, con una discesa in Italia, distruggere il frutto del sangue sparso, dei saccheggi, dei tumulti. Conveniva perciò cambiare oggetto, e tentare una stabile sommissione per altro mezzo. Sin che sulla sede arcivescovile vi stava Guidone, eletto da Enrico II, offeso da Roma per la forzata umiliazione, non era sperabile che il partito d'Ildebrando colla forza tenesse costantemente depresso il ceto dei nostri ecclesiastici. Era necessario il collocare sulla sede metropolitana un arcivescovo, il quale dovesse pienamente questo beneficio a Roma, e le fosse suddito per animo e per riconoscenza. Tale appunto fu il progetto col quale Erlembaldo, che nuovamente si era portato a Roma, rientrò nella patria l'anno 1068. Questa proposizione, che tendeva a deporre l'arcivescovo Guidone, cominciò a serpeggiare.


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Storia di Milano
di Pietro Verri
pagine 1182

   





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