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      Barnabò era veridico e palesava i suoi sentimenti; Galeazzo non era definibile. Il primo incuteva spavento, l'altro diffidenza. Barnabò si fece scolpire in una statua equestre di marmo, e la collocò sull'altar maggiore di San Giovanni in Conca. Essa ivi si vede, ma non più sull'altare. Galeazzo pazzamente fece distruggere le peschiere, le pitture del Giotto, e tutte le belle cose ordinate da Azzone nel palazzo di corte, quae domus, diceva l'Azario, cum ornamentis et picturis et fontibus, hodie non fieret cum trecentis millibus florenis588. Galeazzo faceva alzare un gran muro con molta spesa; poi, parendogli che stesse male, lo faceva demolire. Faceva delle vòlte assai grandi in mezzo del verno, e diroccavano poi; e i mattoni, le travi, la calce si prendevano, per suo cenno, ove trovavansi, senza parlare di pagamento. Galeazzo fabbricò il castello di Milano e quello di Pavia: Barnabò, quello di Trezzo. Nessuno di questi due atroci fratelli ebbe commensali, come solevano averne Azzone, Luchino e Giovanni. Costoro offendevano un numero sì grande di persone, che non era poi loro fattibile la scelta di alcuni fra' quali passare giocondamente le ore. Barnabò pagava esattamente i suoi stipendiati, e non permetteva che facessero estorsioni; Galeazzo trascurava di pagarli, e non badava alle loro angherie. Durante tale governo, i due successivi arcivescovi Guglielmo della Pusterla e Simone da Borsano non posero piede mai nella loro diocesi; sia che ciò nascesse per le dissensioni col papa; sia che, per godere le rendite dell'arcivescovato, i principi non volessero concederne a quei prelati il possesso; sia finalmente che la meschina vita che sotto a quel governo vi dovette passare l'arcivescovo Roberto Visconti, fatto porre in ginocchio per ascoltarsi il nescis, poltrone, di Barnabò, avesse fatto perdere il coraggio ai successori di presentarsi a vivere sotto quei terribili sovrani, animati anche contro degli ecclesiastici; i quali, con un editto di Barnabò, venivano obbligati a porsi in ginocchio tosto che l'incontravano per le strade, e, non solamente dovevano contribuire la porzione d'ogni tributo al paro di ciascun altro cittadino, ma dovevano portare il più delle tasse che quei sovrani arbitrariamente imponevano sul clero.


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Storia di Milano
di Pietro Verri
pagine 1182

   





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