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      Barnabò derideva l'imbecillità del nipote, il quale ne' suoi editti ancora spirava umanità, beneficenza e moderazione, mentre l'altro continuava a spaventare i sudditi con inesorabile ferocia. Poteva comparire agli occhi dello zio un nuovo tratto di pusillanimità la cura che ebbe il conte di Virtù di procurarsi la grazia del nuovo augusto Venceslao, succeduto al defunto Carlo IV di lui padre. Ma in fatti egli solo venne da quel monarca confermato vicario imperiale l'anno 1380, senza che nel diploma venisse fatta menzione di Barnabò. Così nel silenzio andava il conte di Virtù preparando la mina che doveva scoppiare un giorno e, rovinando il collega, riunire sovranità dello Stato sopra di lui solo. Barnabò, dal canto suo, senza accorgersi, somministrava sempre nuove armi al nipote contro di lui; poiché disponeva una nuova divisione dello Stato suo ne' cinque suoi figli legittimi, e già a ciascuno di essi aveva assegnato il governo nel distretto che gli aveva destinato in sovranità dopo di lui. Marco aveva la metà di Milano; Lodovico aveva Lodi e Cremona; Carlo aveva Parma, Crema e Borgo San Donnino; Rodolfo avea Bergamo, Soncino e la Ghiara d'Adda; Giovanni Mastino, ancora bambino, aveva finalmente Brescia colla Riviera e Valle Camonica. Questo avvenire non poteva essere caro ai popoli, che diventavano sudditi d'una piccola sovranità, e soggetti ad un principe debole. Così insensibilmente, e simulando debolezza ed incapacità, Gian Galeazzo lasciava maturare gli avvenimenti; e andava contraponendo l'apparenza di un saggio principe, a quella d'un capriccioso e crudele despota.


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Storia di Milano
di Pietro Verri
pagine 1182

   





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