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      Ragioni che non sono così vere, come appariscono, perché una vittoria sì grande, come era stata questa di Francesco, avea sì tolto lo animo all'inimici suoi, che non si doveva lasciare loro ripigliarlo, ma era da seguire la vittoria, sanza mettere uno momento di tempo in mezzo e pigliare essempio da Iulio Cesare, il quale fu maestro di sapere vincere.
      Ma lo averso fato d'Italia fece che il Re inclinò alla composizione, la quale Tricarico concluse di ordine del Locotenente, perché l'uno e l'altro sapevano che così si contentava Leone. E rimasono al Re Piacenzia e Parma, che soleano essere dello stato di Milano e nella convenzione furono molti altri capitoli, i quali fu fatto tempo al Papa dieci giorni a ratificare. E fatto questo accordo, il Re entrò in Milano e, benché piantasse l'artiglieria al Castello che Pietro Navarro, a chi avea dato questa cura, gli promettesse in pochi giorni la espugnazione di quello, non volle l'ultima vittoria, ma fu contento pigliarlo a patti da Massimiliano, al quale promesse ciascuno anno scudi trentacinquemila di pensione. E preso che ebbe il Re il Castello, si dimesse la guerra e le genti s'alloggiorono per la ducea in vari luoghi, e una parte n'andò in favore de' Veniziani verso Brescia, sotto il governo del Bastardo [22r] di Savoia.
     
      Leone, intesi che ebbe i capitoli, tutti li confermò, eccetto uno che conteneva che quello dovessino pagare i Fiorentini a Francesco, per esserli stati contro in questa guerra, fussi rimesso nel duca di Savoia. Questo capitolo per niente il Papa volle ratificare, dicendo che non era conveniente che lasciassi i Fiorentini a discrezione del duca di Savoia, i quali non aveano fatto guerra contro al Re e, quando l'avessino fatta, erano stati tirati da lui al farla contra loro volontà.


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Scritti storici e politici
di Francesco Vettori
pagine 412

   





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