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      Furono i romani, nello stato aristocratico, rigidissimi custodi della legge delle XII Tavole, come si è sopra veduto; tanto che da Tacito funne detta «finis omnis æqui iuris», perché, dopo quelle che furono stimate bastevoli per adeguare la libertà (che dovettero essere comandate dopo i decemviri, a' quali, per la maniera di pensare per caratteri poetici degli antichi popoli, che si è sempre dimostro, furono richiamate), leggi consolari di diritto privato furono appresso o niune o pochissime; e per quest'istesso da Livio fu ella detta «fons omnis æqui iuris», perch'ella dovett'esser il fonte di tutta l'interpetrazione. La plebe romana, a guisa dell'ateniese, tuttodì comandava delle leggi singolari, perché d'universali ella non è capace: al qual disordine Silla, che fu capoparte di nobili, poi che vinse Mario, ch'era stato capoparte di plebe, riparò alquanto con le «quistioni perpetue»; ma, rinnunziata ch'ebbe la dittatura, ritornarono a moltiplicarsi, come Tacito narra, le leggi singolari niente meno di prima. Della qual moltitudine delle leggi, com'i politici l'avvertiscono, non vi è via più spedita di pervenir alla monarchia; e perciò Augusto, per istabilirla, ne fece in grandissimo numero, e i seguenti prìncipi usarono sopra tutto il senato per fare senaticonsulti di privata ragione. Niente di manco, dentro essi tempi della libertà popolare si custodirono sì severamente le formole dell'azioni, che vi bisognò tutta l'eloquenza di Crasso, che Cicerone chiamava il «romano Demostene», perché la sustituzione pupillar espressa contenesse la volgar tacita, e vi bisognò tutta l'eloquenza di Cicerone per combattere una «r» che mancava alla formola, con la qual letteruccia pretendeva Sesto Ebuzio ritenersi un podere d'Aulo Cecina.


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Principj di scienza nuova
di Giambattista Vico
pagine 534

   





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