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Contemplazione della morte

Gabriele D'Annunzio
Il Vittoriale degli Italiani, 1941, pagine 124

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

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[ Testo della pagina elaborato con OCR ]

   ero là, tra quegli affettuosi dissimulatori, l'udii motteggiare con sì vivace grazia, che veramente le più celebri delle parole stoiche mi sembrarono cosa ruvida e grossa.
   Una notte di marzo la figliuola maggiore, ch'era venuta a trattenersi nella casa per assisterlo, dal suo letto udì nella camera del padre un gran ridere. Attonita e un poco sbigottita, si levò e andò a origliare. L'ottimo abate Eugène de Vivié, rettore della parrocchia, consolatore intrepido, aveva voluto vegliar l'infermo nel martirio notturno. Aiutandolo egli a sollevarsi dal guanciale per l'orribile rigurgito che lo travagliava, una inattesa facezia del sofferente aveva suscitata quella ilarità concorde.
   Ripensai quel rimbrotto di Frate Elia, quando San Francesco giaceva al Vescovado in custc dia, e voleva che Frate Agnolo e Frate Leone gli cantassero ogni ora le laudi di nostra suora morte per rallegrarsi nel Signore. «Hacci la scolta alla porta; e niuno vorrà credere esser tu un santo uomo, udendo del continovo cantare e sonare nella tua cella. »
   Finché la volontà potè comandare le membra affievolite, si trascinò ogni mattina alla cappella per ricevere il pane eucaristico; del quale solo sembrava nutrirsi, non prendendo nella giornata
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