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Contemplazione della morte

Gabriele D'Annunzio
Il Vittoriale degli Italiani, 1941, pagine 124

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

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[ Testo della pagina elaborato con OCR ]

   Mi sembra che l'istessa lampada sopranna' turale illuminasse quel Sabato Santo, quasi ritornato fantasma di quell'eclisse
   che in cielfue quando patì la suprema Possanza.
   Era uno di quei mattini oceanici in cui l'aria e l'acqua, l'una nell'altra convertendosi a vi' cenda, sembrano formare un solo elemento inane. Grandi velarii pallidi sorgevano, si dilatavano, si laceravano, cadevano a brandelli, si rammen' davano, si ritessevano senza fine. La Landa pareva sollevarli e respingerli col suo fiato affan' noso, perché era travagliata dalla doglia della fecondità. A quando a quando, se spirava il ponente, i lembi e le volute s'imbiutavano di fovilla, s'ingiallivano del solfo arboreo. Talora una nuvola di polvere ferace rimaneva sospesa su le chiome dei pini, ondeggiava, dileguava per ispandersi altrove in piogge nuziali. Aerei entrambi, il polline e la cenere si mescolavano, come se il vento rapinasse i fiori e gli avelli.
   E colui che aveva confuso il polline e la cenere nell'émpito dei suoi più alti canti e divinamente comunicato all'una la virtù dell'altro, il poeta
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