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      «Felice quell'anima, esclama Abelardo, che meditando sulla legge di Dio giorno e notte, è in grado di sorbire ciascheduna scrittura alla stessa scaturigine della fonte, quasi acqua purissima, sicché non debba servirsi di rivoli vaganti qua e là, torbidi, anziché chiari, per ignoranza e impotenza, e sia poi forzato a rigettare quello ch'egli abbia bevuto»(35). Parole queste che anticipano tutta l'ermeneutica moderna dei libri sacri, quale è stata coltivata da Erasmo in poi con sempre crescente ardore e successo. Esse devono esprimere il pensiero d'Arnaldo, non meno che quello di Abelardo: la ragione e la scienza come istrumento di ricerca e di certezza, surrogate alla muta autorità della Chiesa e della tradizione; qui è il maestro e qui è il discepolo, per quanto sieno d'altronde particolari le vie seguite, e diverse le attitudini mostrate dall'uno e dall'altro.
     
      XXI.
     
      Giovanni Salisburiense, uomo non dei minori del tempo suo, anzi dei maggiori, spirito acuto e pratico, pronuncia su Arnaldo una parola vera, la piú vera forse che si sia scritta: Diceva cose, scrive egli, che alla legge dei cristiani consonano assaissimo, ma che anche dalla vita dissonano assaissimo. Aveva, vuol dire, una idealità grande. E tale l'hanno gli uomini il cui passaggio quaggiú stampa una vasta orma; o prima o dopo o mai che l'umanità ci rimetta dietro essi il piede. E lo sanno. E perciò sono come lui, rigidi; non ammettono, nella coscienza dei loro proponimenti, che altri gl'impedisca o li fermi: non par loro retta, utile vita altra che la loro; e stimano che errino quelli, i quali non seguono le loro norme e dottrine.


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Arnaldo da Brescia
di Ruggero Bonghi
pagine 61

   





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