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      Ebbi a mano una relazione dell'arciprete di Tresivio al vescovo, dove si lagna che i preti di Valtellina portano barbe a foggia di Turchi, "usano collari alle camicie rotondi e crespi alla bresciana, le sottane con collari pure rotondi cascanti sul collo, maniche scavezze e folte di bottoni, e veste quale portano gli sbardellati Bresciani". Ben i vescovi comaschi gridavano, senza cessare, perché si osservassero le feste, i sacerdoti smettessero gli abiti sfarzosi, le armi offensive, non bazzicassero l'osteria, non ricettassero malviventi, non donne di mal affare. Il vescovo Volpi interdice di vendere alla festa confortini né odori, il fare spettacoli di saltimbanchi, ed il sedere in chiesa: i preti non portino calze sparate e larghe, non camicie colle crespe e le lattughe, non il cappello in città o nei borghi, se pur non fosse per ripararsi dall'intemperie. Si astengano dai guanti, non barbe troppo lunghe, non armi, eccetto un coltello in viaggio. Il vescovo Archinti si lagna che troppe parrocchie rimangano sprovvedute di parrochi perché date in commenda a cardinali, i quali in Roma ne godevano, senza cura, le entrate. E che i preti della Valtellina rechino scandalo agli eretici, singolarmente per l'ignoranza, l'andare armati, la lussuria e l'imperizia dell'ecclesiastica disciplina in quella esecranda libertà di vivere, e di dire quanto meglio piace a ciascuno. Era poi piuttosto unico che raro quel parroco che talvolta spiegasse il Vangelo o la dottrina ai suoi: e la predicazione era abbandonata ai frati, singolarmente ai mendicanti, indipendenti dal vescovo, e spesso più desiderosi dell'applauso che del frutto, o del frutto della bisaccia che di quel delle anime.


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Il Sacro Macello di Valtellina
di Cesare Cantù
Sonzogno
1885 pagine 160

   





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