Il giudice di Bormio istruì il processo, facendo, per sicurezza di coscienza, intervenire l'arciprete Simone Murchio; e col consenso del vescovo di Como furono decapitati ed inceneriti trentaquattro fra uomini e donne(92). Così e folli guerre, e tremendi contagi, e pazzi pregiudizi concorrevano ad affliggere ed a sterminare la miserabile umanità.
Quand'a Dio piacque, la peste cessò: ma non i mali della Valtellina. Poiché, ora col pretesto del passaggio, ora del bisogno, or dell'inquietezza, era ogni tratto riempita da quella ribaldaglia che si chiamava soldatesca, la quale diffondeva lungo il cammino malori, fame, mal costume. E quando era costretta andarsene, se ne faceva compensare con dei mille fiorini come d'un gran favore. Si dovettero vendere od impegnare gli argenti delle chiese, e gli abitanti erano messi a gravi tormenti per obbligarli a dare danaro(93); tanto che i pochi residui della peste erano entrati nel disperato consiglio di abbandonare l'infelice patria, se per avventura il Feria, tornato governatore del milanese, non avesse adoprato di cuore presso l'imperatore, affinché di là togliesse le truppe. E l'ottenne o fosse pietà, o piuttosto il bisogno di opporre quei soldati al gran Gustavo Adolfo di Svezia, che aveva in Germania rialzata la causa dei Protestanti.
Ed appunto per quella guerra, di grand'importanza diveniva la Valtellina all'Austria, che per di là portava, senz'altro chiederne, i soldati d'Italia in Alemagna a pronto soccorso. Così nell'agosto del 1633 il duca dì Feria s'inviò con 12.000 fanti e 1.600 cavalli pel giogo di Stelvio in Tirolo, calle preferito perché non toccava terre grigioni.
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