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      Ciò significava che la Chiesa non era più unica interprete della natura, e che le leggi di questa son impreteribili più de' suoi pensamenti; e poichè la ragione ha la potenza e il diritto d'interpretar i fenomeni della natura, potrà criticar pure le opinioni che la Chiesa se ne formò, e che trae dalla sacra scrittura. Questa è un codice di leggi morali e religiose, non un'esposizione di filosofia naturale; parlando a uomini semplici, essa adoprò il linguaggio vulgare, e parlò delle apparenze, non della realtà. E qui ad Aristotele e a Tolomeo, ai dettati della Scuola e all'illusioni degli occhi opponeva Pitagora, Platone, il cardinale Cusa che annunziò il moto della terra; Paolo III che accettò la dedica di Copernico; e più di tutti l'intelletto, dal quale soltanto, e non dai sensi, può esser afferrato l'infinito.
      Quanto la cosmologia, altrettanto restava ampliata l'azione di Dio, non più ristretto nella «tragedia cabalistica» ch'è la teologia del medioevo, ma con azione viva e libera, prodotta dallo studio vero della creazione. Eppure per tale asserzione unica il Bruno veniva dichiarato ateo, quasi, facendo governar il mondo da leggi stabili, escludesse il bisogno di Dio. Del che l'Inquisizione non verrà troppo incolpata da chi veda, nel secolo successivo, fuor delle passioni del momento e fin delle convinzioni religiose, l'erudito più spregiudicato, il filosofo più scettico, sentenziare che «l'ipotesi di Bruno è nel fondo quella di Spinosa: entrambi unitarj esagerati: fra questi due atei la sola differenza consiste nel metodo: Bruno adoprando quel de' retori, Spinosa quel de' geometri. Bruno non ridusse l'ateismo in sistema, non ne fece un corpo di dottrina legato e intessuto al modo de' geometri: non si brigò della precisione; si servì d'un linguaggio figurato che sottrae spesso le idee giuste.


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Gli eretici d'Italia
Volume Terzo
di Cesare Cantù
Utet
1866 pagine 895

   





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