Androchida, dimandato come si potesse piacer a gli uomini, rispose conversar con loro soavissimamente ed arrecar loro le cose più utili e necessarie. Aristotile lasciò scritto che tali devemo esser verso gli amici, quali che desideriamo che essi siino verso di noi». Disse allora Cornelia:
«Gli amici si conoscono credo io più nell’avversità che altramente, secondo quel verso d’Ovidio:
Quando sarai felice numerarai molti amiciMa ne’ tempi travagliosi ti ritroverai solo.
E il poeta ferrarese lasciò scritto:
Alcun non può saper da chi sia amatoQuando felice in su la ruota siede».
«Diceva - aggiunse Corinna - Seneca che le prosperità dispongono gli amici, ma le avversità certamente gli provano. E Demetrio aggiungeva nelle prosperità doverci esser gli amici advocati, ma nelle avversità non vocati, cioè che da loro spontaneamente e senza aspettar d’esser richiesti debbon soccorerci ne i bisogni. Molte furono ne’ tempi antichi vere copie d’amici, quali misero la propria vita l’un per l’altro volontariamente, come Pilade ed Oreste, Damone e Pitia, Focion e Nicocle; Achille e Patroclo. Servio Terrenzio si finse Decio Bruto per morir in suo cambio, ma non gli riuscì. Così molti altri furono amici come Scipio e Lelio, Niso ed Eurialo, Ercole e Filottete, Polistrato ed Ipoclide filosofi, nati in un medesmo giorno, disciplinati da uno istesso maestro e morti in un medesmo tempo».
«Certo - disse la Regina - fra duo veri amici non deve esser più de un voler ed un non voler e ogni cosa deve esser commune».
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