Il padre, che coltivava un suo poderetto a qualche lega da Genova, non aveva modo, con tutta la sua buona volontà, di mantenere il figliuolo nella capitale; e lo Sforza, sebbene affezionato al padre, si era tanto ingolfato nella politica, da non potersi risolvere a vivere in un piccolo casolare, separato da ogni comunicazione intellettuale e politica. L'unico modo di sostentamento era per lui di dare qualche lezione di disegno, dalle quali ricavava ben poco. Ma era avvezzo a vivere così frugalmente, e i suoi bisogni erano così piccoli, che con quel poco poteva tirarsi avanti decentemente.
Cesare ed io rimanemmo in città, e ci pigliammo l'incarico di far recapitare le lettere di Fantasio destinate a Genova, e di effettuare e dirigere la trasformazione dello schema federativo in una vera associazione segreta. E prima di tutto facemmo sapere a Fantasio, per quei canali che egli ci aveva indicati, come il suo piano fosse stato accettato e come si fosse già costituito un Comitato centrale provvisorio composto di Cesare, dello Sforza, del Principe e di me. Alfredo, sempre timido e diffidente di sé stesso, non fu potuto indurre a dare il proprio nome, quantunque vi appartenesse di fatto. Lasciammo un posto per Adriano, il fratello di Lazzarino, che, appena tornato, accettò; ed uno per il conte Alberto, al quale era diretta una lettera di Fantasio. Ma il conte Alberto si scusò, dicendo che, come Carbonaro, non si sentiva libero di iscriversi a qualsivoglia altra associazione. Era questo uno scrupolo ragionevole, e noi non insistemmo.
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