È, lo ripeto, una vita miserrima. Ha certamente i suoi conforti, pochi a dir vero, ma dolci, come sono le amicizie che si annodano talora con animi nobili e con cuori devoti al pubblico bene: il lembo argenteo che cinge la nube oscura è la certezza che tutto questo lavorio agevola a mano a mano la strada verso un fine nobile e santo.
Questa certezza noi l'avevamo, e da essa fummo sostenuti nel nostro spinoso cammino. In sei mesi di lavoro incessante avemmo tali risultati, che facevano meraviglia a noi medesimi.
Non c'era nel regno una sola città di qualche importanza che non avesse il suo Comitato in azione; non un solo villaggio, che mancasse di un capo della propaganda. Eravamo riusciti a stabilire comunicazioni regolari e sicure fra i diversi Comitati nell'interno; e fuori dello Stato eravamo in corrispondenza, per mezzo dei viaggiatori affiliati all'associazione, con Toscana e Roma, via Livorno e Civitavecchia, e così continuando, fino a Napoli. Il numero degli adepti era talmente cresciuto, che ben presto giudicammo necessario stringere i freni. Persone d'ogni classe s'erano unite con noi: nobili, borghesi, avvocati, impiegati del governo, capitani mercantili, marinai, artigiani, preti e frati. Fra questi ultimi il mio vecchio amico Vadoni, uno della nostra setta, era infaticabile nel diffondere l'associazione; e lo stesso facevano i nostri compagni Adriano Stella ed il Principe, il primo fra gli uomini di mare, il secondo fra la nobiltà.
Le cose camminavano prosperamente, quando giunse da Torino un viaggiatore recando nuove molto cattive.
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