Io ne feci molte, sì perché doveva farne, e perché voleva rifarmi del tempo perduto. In questo mezzo il mio maestro disse che io avevo compiuto gli studi letterari, che egli mi aveva spiegata la Rettorica del Majelli, e non sapeva che altro insegnarmi; onde fui messo a scuola d’un altro prete che passava per cima, e insegnava matematica, filosofia e teologia. Presi dunque fra mani la Geometria del padre Tacquet, e la Logica e la Metafisica dell’abate Antonio de Martiis, e mi messi a studiare, perché secondo mi avevano detto la geometria quadra la testa, e la logica insegna a ragionare, e io volevo vedere come la testa mi si sarebbe quadrata, e come avrei fatto a ragionare. Fatto sta che come si dice chi nasce tondo non muore quadro, io non mi persuadeva di quelle cose che mi contava il maestro, il quale non mi pareva fosse un gran loico, e teneva su pel tavolini molte figure di cannucce con le quali insegnava la geometria solida a la classe superiore. Nondimeno io andavo a questa scuola di assai buona voglia, perché il prete aveva due nipoti belle e fresche come due rose, che mi quadravano meglio della geometria e con le quali avrei ragionato proprio a filo di logica. E mi piaceva la scuola anche perché ci venivano alcuni chierici che studiavano teologia e argomentavano con le formole scolastiche in latino: e io avevo un gusto matto a udirli ripetere: “Nego maiorem, distinguo minorem, nego maiorem sussumptam”. E con un certo mio compagno che era loico e discolo come me, quando dopo la lezione scendendo le scale accadeva di vedere quelle faccette pulite e frescolelle, egli intonava: “Probo maiorem”, e io rispondevo: “Sumo minorem”. Di tutta quella filosofia e geometria che studiai allora non mi rimase altro nella memoria che quelle fanciulle e quelle formole scolastiche.
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