“E voi farete l’esame,” disse il canonico,”e per cattedra superiore.” Fui punto sul vivo, e mi messi a studiare di forza: ripresi il greco, e mi posi a battere sopra Omero, non avevo per mano altri libri che greci e latini, e lessi Tito Livio due volte, e spesso leggendolo mi dovevo asciugare le lagrime. Senza maestri, con pochi libri, che importava? avevo la febbre dello studio, e vent’anni di vita.
“Si,” mi direte, “ma come campavi tu allora, povero giovanotto?” Oh, non vi ho detto che io fidava in Dio? Tra i giovani studenti c’eran di quelli che avevano bisogno del latino per gli esami, ed io li addestrava nel latino; c’eran di quelli che non sapevano scrivere correttamente in italiano, ed io li faceva scrivere: insegnavo in una scuola femminile, e in alcune case particolari. Erano quattrinelli che guadagnavo, ma mi bastavano, e ci campavo col mio fratello Giovanni, il quale studiava le matematiche e il disegno per divenire architetto, ed era sempre allegro, e per la casa andava canterellando le arie de la Sonnambula, e mi faceva trovar pronto quando tornava a casa il rosto di pecoro che era il nostro cibo consueto. Con che gusto, con che gioia, con che risate quel mio fratello ed io facevamo il nostro pranzo! Un giorno che io rilessi d’un fiato le Georgiche di Virgilio, e poi mangiammo due piccioni che ci furono regalati, lo ricorderò sempre quel giorno felice, io mi sentii più grande d’un imperatore, e cenai proprio in Apollo. Con le Georgiche in capo, e un piccione in corpo chi stava meglio di me?
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