Quand’io gli ho fatto riverenza, egli mi ha risposto con un sorriso e un cenno di capo; ma come gli ho detto il tuo nome, si è accigliato, ha posto il pugno su la tavola che aveva a fianco, e ha detto: ‘Ah, questo è l’affare della giovine Italia: bene, bene, si provvederà’.” E quando dopo molti mesi fu provveduto, ed io era ancora in carcere, la povera mia moglie andò un’altra volta dal Re, e mi scriveva: “Afflitta come sono, e ammalata, ed irritata da tanti mali che mi pungono gli ho parlato proprio col sangue agli occhi: gli ho detto che dopo un giudizio e dopo tanto tempo tenerti ancora in carcere è tormentare una madre e due creature. ‘Ma ora quest’affare dipende dal ministro.’ ‘E il ministro mi ha detto che dipende da Vostra Maestà. Io m’aspetto che V. M. scriva su questa supplica la liberazione di mio marito.’ ‘Ci perdete il tempo ad aspettare.’ ‘Io non mi muovo di qui se V. M. non mi fa la grazia.’ ‘E bene sedetevi.’ Allora ho capito, ho capito, ho preso per mano Raffaele che voleva salire sopra un seggiolone, e sono andata via. M’è venuto dietro don Giovanni Lombardi e mi ha detto: ‘Avete parlato molto forte al Re, e mi maraviglio come egli non v’ha detto nulla’. ‘Perché sa che ho ragione.’ ‘Basta una parola per far cacciare una persona dall’udienza.’ ‘Egli sa che ho ragione’. Poi sono stata dal ministro, che all’udire come io avevo parlato al Re s’è inalberato. ‘Ma sapete, o signora, che anche dopo il giudizio io posso tenere in carcere vostro marito non solo per due anni ma per dieci, e mandarlo dove io voglio?
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