sapevano e potevano mettere insieme; e la serie delle pietanze si chiudeva con la porchetta. Per ultimo venivano, naturalmente, le frutta e il dolce. L'arrivo della porchetta era generalmente salutato con urli e applausi caldi come il vino cotto, dal quale le teste erano ormai riscaldate. La porchetta, lo dirò per quelli che non lo sapessero, è un porcellino di latte, arrostito al forno; e vien portata in tavola così intera, col suo bel color d'oro, e con una mela o un arancio fra i denti. Essa consta, si può dire, di quattro parti, l'una più buona dèli'altra; e c'è chi preferisce una o due di esse, e chi le preferisce tutte: voglio dire la crosta (ossia la pelle rosolata), il grasso, la carne e il ripieno, tutto formato di pezzettini di fegato, di polmone, e di altre ghiottonerie fornite dalla generosità e dall'abnegazione dello stesso porcellino.
E così quella brava gente mangiava e beveva per due o tre ore; e i piatti non soltanto erano infiniti, ma ciascuno, alla sua volta, d'una veramente omerica abbondanza. «Meglio una pasqua », dice un proverbio abruzzese, «che cento pasquette ». In un pranzo di nozze, cominciato a mezzogiorno, mi ricordo che si finì di mangiare coi lumi accesi, ed era d'estate. Il pranzo e la céna formarono, così, una cosa sola; e lo stomaco digeriva e si veniva di nuovo riempiendo nello stesso tempo. Parimenti il boa, quando va inghiottendo, dopo d'averla ben stritolata, una grossa preda, per esempio un cavallo; nel tempo che digerisce la parte ingoiata, tiene ancora ingombra sconciamente la bocca, e ne avanza gran quantità al di fuori, di quel che gli resta ancora da ingoiare.
Dopo il pranzo venivano le visite agli amici e ai parenti del villaggio stesso o dei villaggi vicini. E qui di nuovo una gran quantità di vini, di rosolii, di confetti 0 di paste. E bisognava accettare e mangiare; se no,