Fin dai primi anni del mio insegnamento guardavo a Firenze come a ultima meta desiderata, ma con poca o nessuna speranza di poterla un giorno raggiungere. Io non so se un lungo e ostinato desiderio possa da sè solo, per ragioni die sorpassano i ristretti limiti della nostra osservazione, finir col farci ottenere l'oggetto desiderato, ma il fatto si è che finalmente senza nessuna mia premura diretta ebbi quella sede di cui non ardivo di credermi degno.
Da quando sono arrivato dove io desideravo, soglio più spesso di prima, come fa ognuno che sia arrivato, o creda di esser arrivato alla meta, anche perchè intanto sono giunto a quell'età che ricorda più che non speri, soglio più spesso di prima volgere lo sguardo ai fatti del passato. In questi fatti tengono uno dei primi posti quelli che si riferiscono alla formazione della mia individualità intellettuale, qualunque possa essere il suo valore, e all'esercizio della mia professione. E poiché non mi paion del tutto privi d'interesse, ho pensato di lare una scelta di quei ricordi e di esporli nel miglior modo che mi sarà possibile.
Il mio primo maestro fu Don Luigi Romani di Colledara, mio villaggetto nativo. Io andavo ogni giorno in casa sua ed ero, in quel tempo, il suo unico scolare. Di quella scuola ricordo soltanto che io avevo una Santa Croce, ossia un abbaco (cosi chiamato dalla figura della croce impressa avanti all'alfabeto, la quale serviva a ricordare allo scolaretto di farsi il segno della croce prima d'incominciare a leggere), e più tardi una piccola storia sacra con rozze incisioni in legno, tra le quali rivedo ancora quella d'Abramo pronto a scannare Isacco, e di Giuseppe tra i fratelli ; e che stavo quasi sempre in ginocchio, pena spesso rincrudita da due ceci sotto ciascun ginocchio. Ricordo anche le mie prime prove di scrittura. Il maestro per mancanza di lapis e di esem-