dose di schiaffi e di scapaccioni, mi fece mettere in ginocchio, e ci dovei restare per parecchie ore.
E cosi io passavo il mio tempo in mezzo a continui spaventi, e mi ritenevo, ed ero infatti, molto sventurato. Oggi non so condannare mio zio per quella sua brutale severità verso di me, perchè, al suo tempo, si credeva che non esistessero mezzi migliori di educazione; ma quello che io non riesco a capire neppure oggi si è come egli potesse arrabbiarsi sul serio per quelle, in fondo, innocenti birichinate d'un povero ragazzo. Quei suo furore non era simulato, ma vero, proprio vero. Io, per me, alla vista di quella mosca con la coda, non so se avrei saputo frenar le risa. Ma che noia non sarebbe il mondo se i caratteri e i tempi fossero tutti uguali? Una delle cause più frequenti di rimproveri e di picchi si era che lo zio si era messo in testa che io povero bambino volessi farla da padrone in casa sua e volessi trattar Rituccia come una mia serva. Egli mi prendeva per le braccia, mi scoteva forte forte e mi diceva: — Il padrone qui son io: tu non sei nulla: lo capisci? — Io stavo zitto; ma quando egli era andato via, mi vendicavo scrivendo sui muri e sulle imposte delle finestre, naturalmente a caratteri piccoli : II vero padrone di questa casa è Fedele Romani, e non già Lino Romani. Fortuna che nessuna mai di quelle ribelli epigrafi cadde sotto i suoi occhi. Io non so davvero cosa sarebbe successo se egli le avesse vedute.
Questo pensiero della sua padronanza e del timore che altri la potesse attaccare e diminuire doveva essere una specie di fissazione per mio zio. In punto di morte questo pensiero, come succede di tutti quei pensieri che sono parte fondamentale del carattere, diventò gigante in lui. Uno o due giorni prima che egli morisse, io mi