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Colledara
- aggiuntovi: Da Colledara a Firenze
Fedele Romani
R. Bemporad & Figlio, 1915, pagine 335

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

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[ Testo della pagina elaborato con OCR ]

   trovavo, senza che egli lo sapesse, in una stanza attigua alla sua ; e nella camera, che aveva la porta aperta, egli era aiutato a scendere dal letto da un suo contadino ; in quel momento, si trovava nella sua villa in riva all'Adriatico. Non so quale discorso corresse tra loro due, e il contadino parlando di un mio fratello, disse il padrone, seguendo l'uso dei nostri contadini di chiamar, per riguardo, tutti padroni, i figli, i fratelli, i nipoti del padrone vero. A questa parola egli si senti rinascere improvvisamente il vigore della vita e con voce rauca e grossa, dove lampeggiò l'impeto e la collera di altri tempi: — Chi è qui il padrone? — disse — chi è qui il padrone? io sono il padrone. — Ma purtroppo al mondo veri e proprii padroni non ci sono.
   Oltre che con gli scapaccioni, con gli scossoni e i ceffoni, ero punito anche con lo star senza mangiare e qualche volta con qualche feroce mortificazione che al mio carattere sensibile doleva più delle busse. Una volta mi trovavo in chiesa insieme con lui e passavo davanti alla Cappella del SS. Sacramento. Dovevo fare una genuflessione in tutte le forme, ma perchè mi vergognavo delle signore e dei signori che erano attorno, l'abbreviai e la feci male. Mio zio lo notò, e, con voce repressa, ma violenta: — Fa' di nuovo la genuflessione, — mi ordinò. Io la ripetei, ma, confuso com'ero, feci peggio. E lui, inesorabile: — Di nuovo! — Me la fece ripetere per tre o quattro volte, e io non vedevo più nulla fuori della mia vergogna e del mio supplizio.
   Intanto, avanzavo a poco a poco negli studii e mi preparavo, mediante la scuola speciale che mi faceva don Domenico Vecchioni, ad entrare nell' infima. A ogni piccola mancanza, quel maestro mi dava dei fieri pizzicotti nella parte superiore delle braccia, certi pizzicotti