il saluto con un risolino d'intelligenza, che ripeteva in rapido compendio il comico incidente del mio alloggio in casa loro.
Ad Aquila trovai un Liceo che valeva su per giù quello di Teramo. La figura più caratteristica era il professore d'italiano, un toscano, membro della commissione per i testi di lingua, uomo d'ingegno e colto; ma mezzo matto e fannullone. Era fissato con la lingua del trecento, era uno scolaro, un po'in ritardo a dir vero, del padre Cesari, con lui non si sapeva come fare a scrivere: ogni parola, ogni frase era un francesismo, ogni parola, ogni frase, un'improprietà o un'impurità. Fortuna che ci faceva scrivere molto poco. L'unica sua lezione era di gridare a gola spiegata, da far tremare i sudici vetri dell'inferriata della scuola, qualche passo di Dante. Egli entrava nella scuola gridando e quasi continuando una declamazione incominciata fuori. Egli commentava i versi via via con urli d'ammirazione:
Ed una lupa che di tutte brame Sembiava carca nella sua magrezza
— Non vi pare di vederla la lupa? Non la vedete? Come non la vedete? — E noi tutti in coro: — Sì, sì. — Guai a dire che non la si vedeva. Montava sulle furie.
In questa nuova scuola io continuavo a studiare come prima, ossia così e così. Ma la mia qualsiasi naturale tendenza a osservare e notare si svolgeva sempre più e s'arricchiva in modo notevole la mia mente d'idee e di pensieri. Più che i libri leggevo direttamente nel mondo, e questo è poi stato il carattere fondamentale di tutta la mia vita, e non ho vergogna di confessarlo; e m'interessavo vivamente di tutto quello che leggevo, vedevo, udivo, senza far differenza di materia : da ogni cosa cercavo di