male, sui nostri lavori scritti. Lì si aprivano le ricche miniere della sua dottrina, del suo buon gusto e del suo buon senso. Noi l'ascoltavamo con riverenza e devozione, perchè tutti nelle sue parole trovavamo, quali che fossero le nostre tendenze e le nostre disposizioni, materia di cui far tesoro; poiché non c'è scuola, non c'è indirizzo in cui non si richieda giustezza e misura, imparzialità e indipendenza nei giudizi, prudenza nell'asserire, la più scrupolosa coscienza nella ricerca, il più profondo possesso del soggetto da trattare. Questi erano gl'insegnamenti fondamentali che attingevamo alla scuola del ^ande maestro, e questa era la parte immortale di essa: immortale, perchè passava, s'imprimeva nell'anima degli scolari, i quali la trasmettevano e la trasmetteranno, per il bene degli studi, alle nuove generazioni.
Alla souola del D'Ancona tenevamo tutti un contegno rispettoso e conveniente ; ma quantum diversi ab illis alla scuola del Ferrucci e del Banalli! Michele Ferrucci insegnava letteratura latina: era marito di Caterina Franceschi, il più alto forse dei suoi titoli, ed aveva sempre in bocca la Caterina: la Caterina di là, la Caterina dì qua: la citava a ogni proposito. La sua conoscenza del latino era puramente umanistica, al modo antico; manonanr dava molto a fondo neppure in questq; quel latino spesso trovava un troppo fragile e un troppo incerto fondamento nel solo peloso e senile orecchio del professore. Le sue lezioni sembravano fatte, più che per insegnare, per fare una rassegna di tutti i grandi scrittori di cui, al suo buon tempo, egli era stato amico. E, poiché ormai non aveva più età, si poteva risalire, coi fatti da lui narrati, fino agli ultimi anni del secolo XVIII. Una sera, il Monti, a cena, gli aveva confidato di saper tutta l'Eneide a memoria, e il Manzoni l'aveva accompagnato a casa dicen-