voga. Egli continuava a far lezione, come nulla fosse; solo nelle intonazioni più alte del canto si arrestava, e faceva: —Eh? —credendo che qualcuno avesse azzardato qualche domanda sull'autore. Anche la canzone allora si arrestava; ma poi ripigliava più forte.
I professori dell'Università di Pisa facevano lezione su una specie di pulpito piuttosto alto. Nella parte anteriore di esso era attaccata una lavagna che il professore, naturalmente, nel tempo che faceva lezione, non poteva vedere. E, se egli era seduto appoggiando la schiena alla spalliera della poltrona, non vedeva neppure la prima fila di scolari, nascosta dal parapetto della cattedra. Profittando di queste condizioni di visuale, uno scolare, che sedeva in prima fila, e che oggi è un nome illustre nella nostra letteratura, lasciando la sua panca, si accostò, non veduto, alla cattedra e si prese lo spasso di conficcare una fitta fila di fiammiferi tra la cornice della lavagna e la lavagna stessa. Poi diede fuoco. Il professore continuava a far lezione, glorificato, senza saperlo, da quella luminaria. Il più bei divertimento era veder le facce degli stranieri, che venivano entrando, e rimanevano come stupiti. Chi sa che qualcuno di loro non segnasse nel taccuino: « Gli studenti italiani, per manifestare il loro affetto e la loro ammirazione ai maestri, usano, in alcuni giorni dell'anno, d'illuminare le loro cattedre. E i maestri si mostrano particolarmente soddisfatti dell'onore. »
Un'altra scena memorabile fu provocata dall'arrivo di Monsieur Beauvais. Questo Monsieur Beauvais era un signore ginevrino, sui sessant'anni, con lunga barba di profeta e con uno zucchetto da prete in capo, il quale, nella sua gioventù, era stato scolare di Ferrucci a Ginevra. Venuto a Pisa, aveva cercato il maestro della sua giovinezza, e aveva voluto di nuovo frequentarne le lezioni.