ledara dove si trovava la mia famiglia, di cui mia madre era la regina, e esprimere tutto l'intimo piacere. Ma non lo scrissi nel così detto dialetto signorile, ma in quello puro e primitivo dei contadini di Colledara. I sonetti erano cinque e furono stampati dal Morelli di Ancona, editore allora molto in voga per i suoi eleganti elzeviri.
Altro lavoro cui attendevo con questo e che aveva pur esso relazione col dialetto, furono gli Abruzzesismi. Quando io mi trovavo a Pisa per gli studi universitari mi accadeva ogni giorno, parlando l'italiano, di dir qualche parola che faceva ridere i toscani e i non toscani o non era da essi compresa. Ho detto anche « i non toscani » perchè quantunque essi non parlassero in generale meglio di me, pure avvertivano certe irregolarità del mio linguaggio, perchè le irregolarità loro proprie erano diverse dalle mie; e dove io inciampavo essi sapevano andar avanti con passo svelto e sicuro. A quelle risatine io mi facevo rosso e mi riempivo di stizza, e qualche volta ardivo sostenere che avevo detto bene e che la voce, il modo da me adoperati erano più esatti che quelli che mi venivano suggeriti per correzione. Ma quando però rimanevo solo e non erano più davanti a me quei bruiti ghigni, il mio giudizio si faceva più sereno, riconoscevo d'aver detto uno sproposito e segnavo in un quaderno che tenevo per questo l'errore, la parola, il modo del dialetto che l'aveva prodotto, e la correzione. Avevo serbato con me quel quaderno e volendo che i miei comprovinciali e soprattutto i miei scolari ne potessero riportare quel vantaggio che io n'avevo riportato, e senza andare in Toscana e senza prender stizze potessero imparare tutto quello che io avevo imparato e cessare dai ripetere parlando e scrivendo quegli errori di cui io mi ero