corretto, pensai di ordinare quelle noie, di migliorarle, di accompagnarle con esempi opportuni e di farne un libretto che si potesse leggere non solo con vantaggio ma anche con piacere. Il libretto fu poi accollo dal Porta di Piacenza. Esso fu accolto con molto interesse dagli studiosi di cose di lingua, e con molta freddezza dai miei comprovinciali in genere, i quali tranne le poche solite eccezioni continuarono ancora a ripetere i loro errori.
E la vita e il bisogno di lavoro che si ridestava in me non si fermò qui. Io ricordavo d'aver veduto più volte nella mia infanzia un romito che viveva alle radici del Gran Sasso, in luogo del tutto solitario, e soleva discendere di tanto in tanto giù nella valle, cacciato dalla fame, per domandare l'elemosina di porta in porla. Mi ricordavo di quella testa coperta di folti corti e ricciuti capelli grìgi, di quella faccia magra bruna e grinzosa, di quel passo sempre affrettato, quasi per sfuggire alle tentazioni del demonio che gli corresse alle spalle; ma il romito non discendeva più nella valle ; e perciò, avendo io desiderio di rivederlo non solo per l'interesse che poteva egli stesso suscitare, ma anche come uno dei più vivi ricordi della mia fanciullezza, mi risolsi di andarlo a visitare nel suo eremo. E quella mia visita non restò sola. Altre ne seguirono; e il romito mostrava d'esser sempre più contento di vedermi. E alzava e scoteva gli stinchi delle braccia tra le larghe maniche della tonaca nera e sudicia quando mi vedeva arrivare, tanto più che per rendermelo benevolo io gli avevo detto una innocente bugia, che cioè il vescovo m'aveva dato la commissione di studiare le abitudini di coloro che facevano vita religiosa, e stendergliene una minuta relazione. Egli così, per sentimento di devota obbedienza, di quell'obbedienza che non deve discutere nè ragionare, si piegò a narrarmi i