per un momento era stato il mio terrore e tutti ammiravano la mia improvvisa erudizione.
I colleghi che trovai al Liceo non erano, in generale, gran cosa, ma non mancavano di quelli con buona e soda cultura. Certo, non si poteva allora aspettarsi molto da una residenza come quella; anche Sassari apparteneva a quelle città disgraziate dove si era mandati per i soliti tre p (promozione, punizione, prima nomina), e la povera Sardegna era uno di quei paesi che a tanti danni inevitabili doveva veder aggiunto quello di venir popolata dai rifiuti degli altri luoghi e di dover in certo modo far la parte di ergastolo. Fra i colleglli ebbi l'anno dopo del mio arrivo un mio antico compagno di Pisa, che negli anni d'Università era stato il nostro zimbello. Era giovanissimo ed aveva la pancia e camminava lentamente come un vecchio canonico e canonico era veramente nell'anima. A casa recitava l'uffìzio e cantava i salmi come un prete; e non rivelava nessuna qualità di mente che avesse potuto giustificare la scelta della professione. Non aveva neppure la parola franca e il suo parlare era una specie di balbettio appiccicoso e sali-voso. Eppure questo disgraziato, presa la laurea dopo parecchie inutili prove, riuscì ad aver subito un posto al Liceo: forse per influenza di qualche monsignore; perchè mi dicevano che era creatura di preti, i quali avevano voluto ad ogni costo farne un professore. Gli studenti a scuola gli marciavano attorno insieme con le panche e a volte lo stringevano e chiudevano come in un bozzolo, ed egli non s'avvedeva o mostrava di non avvedersi di nulla. Un giorno, d'estate: — Oh che caldo! Oh che caldo ! — cominciarono a sbuffare e si levarono le giacchette, e rimasero tutto il tempo della lezione in maniche di camicia. La cosa non poteva durare e alla