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Opere Complete
Volume Terzo
Giuseppe Devincenzi
Giovanni Fabbri Editore, 1914, pagine 465

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

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   GIUSEPPE DEV1N0ENZI
   veneti. E come ricordo le miserie dell'agricoltore veneto potrei ricordare coltivatori anche più infelici...
   Senatore ALVISI. Domando la parola.
   Senatore DEVINCENZI... Legga il Senatore Alvisi la bella relazione del Morpurgo, legga la relazione della Inchiesta agraria, e vedrà in quali condizioni si trovino quegli agricoltori.
   È quindi avvenuto che noi ci troviamo in una strana condizione di cose.
   Tutti diciamo: bisogna fare altre scuole agrarie. Va bene. Intanto l'opinione pubblica non prende nessuna parte al progresso dell'agricoltura. E fatte queste scuole, o non ce ne diamo più alcun pensiero, o a ragione o a torto le malediciamo.
   E crede l'onorevole Ministro che vi sia qualcuno che veramente si commova se vi sia o no una scuola secondaria; se vi sia o no una scuola pratica di agricoltura!
   Io credo di no.
   Crede l'onorevole Ministro che la prosperità d'Italia possa ora derivare dalle scuole?
   Le scuole sono un grande elemento di civiltà e prosperità; ma sono elementi di prosperità e civiltà per l'avvenire, non per il presente. Facciamo pure le scuole per l'avvenire, ma non sconosciamo i bisogni del presente; l'agricoltura italiana ha mestieri di aiuti immediati.
   Vi è qualcosa da fare anche pel presente; anzi qualche cosa anche di più importante. Il cittadino istruito ed intelligente, che vede il suo interesse, se ha i mezzi di mettersi in qualche impresa, ben volontieri vi si mette. Chi ha altri studi ed ha energia facilmente addiviene un buon coltivatore.
   Come si spiegherebbe altrimenti questo fatto, che qui mi piace di ricordare, e che del pari mi servirà per rispondere all'onorevole Rossi, che l'Inghilterra cioè, non abbia quasi veruna scuola di agricoltura, e che pur sia il primo paese agricolo del mondo? In Italia la più estesa delle nostre coltivazioni, quella del grano, che occupa circa la metà delle nostre terre arabili, non ci rapporta in inedia che etto-